Mi sto interrogando da giorni su come sarebbe configurabile nel 2025 ciò che negli anni ’80 accadde a Mia Martini, artista dalla voce graffiante, intensa, inquieta. Quel “graffio” che solo una donna con un vissuto drammatico può tirare fuori, perchè è la ferita dell’anima che si trasforma in voce. Lei, regina fragile, isolata in una torre di fango costruita da chi, evidentemente, la voleva fuori dai giochi, perchè un’artista come lei, con la sua voce, la sua classe, la delicata potenza, poteva essere scomoda e mettere in ombra il personaggio di turno da lanciare.
Oggi, 12 maggio, ricorre il trentennale dalla scomparsa di Mimì, come ancora la chiama sua sorella Loredana Bertè, con cui giovanissima lascia il paesino di Bagnara Calabra alla volta di Roma per inseguire il sogno della musica, che sarà per Mimì motivo di meritata ascesa e ingiusto declino. Lei, travolta da maldicenze infondate, ignoranti, in un mondo, come quello dell’arte, in cui spesso la scaramanzia viene prima del talento, dove basta una parola per essere tagliati fuori e vedere distrutta la propria vita. Un mistero, quello della sua morte, rimasto irrisolto.
Proprio le parole per Mimì sono state lame taglienti, pugnali che hanno scavato sin nelle viscere, le stesse parole che negli anni settanta l’hanno portata al successo con brani come Piccolo uomo e Minuetto, firmati da autori del calibro di Franco Califano e Bruno Lauzi, arrangiati da musicisti geniali come Enrico Riccardi e Dario Baldan Bembo.
Le sue interpretazioni non erano semplici esecuzioni vocali: erano confessioni. Cantava l’amore, la solitudine, l’abbandono, la speranza con un’intensità che mette i brividi; canzoni che ancora oggi per tante donne sono momenti di introspezione e amara consapevolezza ma anche inni di resistenza in un mondo che vuole dare a tutti i costi etichette e definizioni ai comportamenti scorretti e disfunzionali del maschio. Con un risultato davvero impietoso: Minuetto nel mondo di oggi è una “situationship”, una relazione indefinita, fatta di sesso occasionale e assenza di ogni prospettiva, con un carico di frustrazione e incertezze che gravano fin troppo spesso sulla donna mentre l’uomo cambia continuamente le carte in tavola (e Califano, da consumato playboy, era ben cosciente di questo modo di fare…).
Piccolo uomo e la ferita dell’abbandono che nasce dal rapporto col padre e non guarisce mai totalmente, ma anzi si rinnova attraverso rapporti sbagliati con uomini che mancano di empatia e forse anche un po’ di coraggio.
Donna, brano scritto da Enzo Gragnaniello per l’album “Martini Mia” del 1989, parla senza mezzi termini di violenza di genere, una tematica che purtroppo Mimì, come tante donne, aveva vissuto in prima persona. Umiliazione, degrado, ancora abbandono, male, tanto male che ancora oggi siamo costretti a raccontare, leggere, subire. Oggi daremmo la colpa al “patriarcato” che è diventato quasi un alibi per spiegare la banalità del male.
Il 1989 rappresenta l’anno della rinascita. Mia Martini torna a Sanremo dopo una lunga assenza con una canzone destinata a entrare nella storia: Almeno tu nell’universo, scritta da Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio dieci anni prima e tenuta nel cassetto in attesa dell’interprete giusta. Quell’ interprete era lei. Il brano è una dichiarazione struggente di bisogno d’amore e autenticità in un mondo dove “la gente è strana, prima si odia e poi si ama” e si consola come può per vincere il mostro della solitudine facendosi andar bene chiunque. Mia canta con un’intensità commovente, come se stesse parlando direttamente all’anima di chi ascolta. La sua voce, ruvida e insieme fragile, si fa preghiera, invocazione, grido e carezza. Il pubblico si inchina. Riceve il Premio della Critica, che poi verrà intitolato proprio a lei. È la dimostrazione che il talento non può essere oscurato dalle cattiverie e dai pregiudizi. È anche la dimostrazione che il dolore, se attraversato con coraggio, può diventare bellezza.
Oggi la voce di Mia Martini è ancora la voce delle donne. Lo sarà sempre, finchè la faremo risuonare, la sua forza continuerà ad essere la forza di noi donne, soprattutto di quelle che devono farsi strada e andare avanti in un mondo troppo difficile e violento.