Una premessa è doverosa da parte di chi scrive: non è mia intenzione innescare alcuna polemica politica, ma voglio portare all’attenzione di voi lettori di Livenet News un fatto, come si usa nel mondo del giornalismo.
Scrivo con profonda cognizione di causa, ma anche con rassegnata amarezza.
Fatta la premessa, oggi, 30 aprile, si celebra in tutto il mondo la Giornata Internazionale del Jazz, istituita dall’UNESCO nel 2011 per riconoscere il jazz come patrimonio culturale universale, simbolo di dialogo, inclusione e libertà. Ogni anno, questa ricorrenza richiama appassionati, musicisti e istituzioni a riflettere sul potere di questa musica nel costruire ponti tra culture e generazioni. Napoli, con la sua storia millenaria e il suo spirito meticcio, sembrerebbe terreno fertile per il jazz. Eppure, tra locali che chiudono, spazi culturali a rischio e una politica spesso assente, chi fa musica nella città partenopea si trova ancora troppo spesso a suonare… senza un posto dove farlo.
Una città dalla vocazione jazzistica
Napoli è città di contaminazioni: nella lingua, nella cucina, nell’arte. E anche nella musica. Non sorprende che il jazz, con il suo spirito ribelle e istintivo, qui abbia trovato interpreti di spessore e un pubblico fedele. Dai pionieri come Franco Del Prete e i Napoli Centrale, fino alle nuove leve come Emilia Zamuner o Lorenzo Hengeller, le certezze matematiche come Eduardo De Crescenzo e Nino Buonocore passando per l’infaticabile lavoro di etichette e festival indipendenti, il jazz a Napoli non è mai stato solo un genere, ma una forma mentis.
Tuttavia, negli ultimi anni la scena jazzistica – come del resto gran parte della musica dal vivo – ha sofferto e soffre una crescente marginalizzazione. Non certo per mancanza di talenti o di pubblico, ma per l’assenza di luoghi adeguati e stabili dove esibirsi.
Locali che chiudono, spazi che mancano
Napoli ha vissuto una vera e propria emorragia di spazi per la musica. Alcuni luoghi simbolici della scena jazz cittadina come l’Around Midnight, hanno chiuso i battenti o ridotto drasticamente l’attività. Altri resistono con fatica, tra alti costi di gestione, burocrazia e mancanza di sostegno pubblico.
I locali più piccoli, spesso ubicati nei quartieri storici, si scontrano con regolamenti comunali rigidi, limiti di orario e una convivenza difficile con la residenzialità. E così, chi vuole organizzare un concerto si trova a dover combattere contro permessi, insonorizzazioni, tasse SIAE e costi di sicurezza. Non è raro che, alla fine, il concerto si faccia lo stesso, ma in perdita. Anche organizzare una rassegna come è stata “Base x Altezza” nel 2024, seppur di successo, non è stata esente da momenti critici, perchè chi fa impresa culturale come noi, in quel frangente ha dovuto fare i conti con una condizione (contrattuale, ndr) molto difficile, cioè quella di non produrre utile…abbiamo portato a termine questo felice esperimento grazie anche alla generosità di due sponsor, diversamente saremmo andati in perdita. Chi fa musica, chi organizza eventi svolge un’attività di impresa, ed è giusto che ogni lavoro sia adeguatamente retribuito, a maggior ragione se contribuisce a creare un momento di crescita culturale ma non solo, perchè il risvolto più evidente è la ricaduta sul tessuto economico della città che si traduce in indotto derivante dalla fruizione di servizi connessi.
Il problema non è il talento. È la politica culturale
Da anni il mondo culturale napoletano si regge quasi esclusivamente sull’iniziativa di chi non si rassegna. Musicisti, organizzatori, operatori, insegnanti, tutti impegnati a inventare soluzioni per far vivere un’arte che non dovrebbe lottare per esistere. Ma da parte delle istituzioni? Troppo poco. Troppe iniziative spot, troppi bandi che arrivano tardi (e guai a produrre utile!!), troppi spazi pubblici in disuso che potrebbero diventare presidi culturali e invece restano chiusi, abbandonati, inutili.
La Giornata del Jazz dovrebbe servire anche a questo: accendere un faro sul bisogno urgente di una politica culturale strutturata. Una politica che investa sulla musica non solo per riempire un calendario di eventi, ma per farne un pezzo permanente del tessuto urbano e sociale.
Qualche proposta, concreta e possibile: una visione
Esistono soluzioni. Servirebbe una mappatura aggiornata degli spazi disponibili per la musica, pubblici e privati, e la creazione di un Albo dei Locali Culturali con agevolazioni vere per chi programma concerti e la possibilità, per chi fa della cultura e degli eventi il proprio lavoro, di guadagnare. Servirebbe riaprire luoghi chiusi – da ex scuole a teatri dimenticati – affidandoli a reti di professionisti, non all’improvvisazione. Servirebbe una visione: non la cultura come vetrina, ma la cultura come infrastruttura.
La musica è un diritto
Chi fa musica, qualsiasi ruolo ricopra, non chiede privilegi. Chiede solo di poter svolgere il proprio lavoro. La musica dev’essere popolare, nel senso più nobile del termine: nasce dalla strada, cresce con la collettività, si alimenta dell’ascolto reciproco. È un diritto, per chi la fa e per chi la ascolta.
Oggi celebriamo questa musica. Ma da domani – da subito – ricordiamoci che senza spazi, anche la musica più libera finisce per tacere.