Totò Riina: la Suprema Corte di Cassazione con sentenza 27776/17 ha annullato con rinvio l’ordinanza 299/16 del Tribunale di Sorveglianza di Bologna con la quale era stata rigettata la richiesta di differimento della pena nei confronti di Riina Salvatore o, in subordine, l’esecuzione della medesima nelle forme della detenzione domiciliare; nello specifico, la Suprema Corte ha ritenuto che l’ordinanza censurata fosse carente nel motivare l’attualità del pericolo del condannato (attualità ostativa alla concessione dei benefici richiesti) e la compatibilità tra “lo scadimento fisico del condannato e la legittima esecuzione della pena”.
Una sentenza, di per sé, di ordinaria amministrazione; tuttavia, la caratura criminale dell’interessato ha sollevato un intenso dibattito sulla correttezza o meno dell’impostazione della sentenza della Cassazione.
Vi è chi, da un lato, ha aspramente criticato tale impostazione, in ragione della crudeltà del Riina e dell’efferatezza dei numerosissimi delitti commessi (che gli sono valsi diciassette condanne all’ergastolo); un affronto alle vittime della sua carriera criminale, per cui l’interessato (come invocato da qualcuno) dovrebbe sì morire dignitosamente, ma sotto il tritolo o nell’acido, riservandogli in sostanza la stessa fine dignitosa che Riina ha riservato alle sue vittime.
Tuttavia le sentenze sono emesse “in nome del popolo italiano” e non in nome delle vittime. Ogni altra precisazione è superflua.
Poi vi sono i progressisti in servizio permanente effettivo, che fanno esercizio di elevate virtù civiche invocando la superiorità dello Stato, istituzione irriducibilmente diversa dalla mafia; lo Stato esercita giustizia e non vendetta.
“Noi non siamo come loro”. Un tripudio di ovvietà, già acquisite e fatte proprie decenni fa in Costituente con la formulazione dell’art. 27 Cost. (ma all’epoca ovvietà non erano, anzi).
Certo, Totò Riina ha diritto ad una morte dignitosa (art. 2 Cost.). Ma ritenere che dal diritto ad una morte dignitosa discenda automaticamente il diritto all’esecuzione domiciliare della pena (cosa che peraltro la Cassazione con la citata sentenza non ha mai affermato) è puro arbitrio: esiste il diritto ad una morte dignitosa, ma non il diritto a morire a casa propria.
Il diritto a morire in casa, ad oggi, non è stato ancora codificato come diritto autonomo. Morire in casa è solo una delle declinazioni del diritto ad una morte dignitosa. Si può dignitosamente morire in ospedale, assistito dalle cure che lo Stato doverosamente garantisce, e circondato dall’assistenza materiale e spirituale dei congiunti. Totò Riina finirà i suoi giorni in carcere o in ospedale, dignitosamente. Non per vendetta, né perché lo dicono le vittime, né il sottoscritto: lo dicono i Tribunali; diciassette Tribunali per la precisione. In nome del popolo italiano.
Il caso Cuffaro: la difesa dei diritti dei detenuti a due facce
Chiudiamo con un aneddoto: alla fine del 2014 l’ex Presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, Udc, condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato, si vide negare dal Tribunale di Sorveglianza la richiesta di visitare l’anziana madre, affetta dal morbo di Alzheimer in quanto, recitava testualmente l’ordinanza, “Il deterioramento cognitivo evidenziato svuota senz’altro di significato il richiesto colloquio poiché sarebbe comunque pregiudicato un soddisfacente momento di condivisione”. In italiano corrente: la mamma non capisce nulla, la visita del figlio è inutile. Un provvedimento squallido, che sembrerebbe ispirato più da una certa avversione verso la “persona” Cuffaro che dalla lettura dell’art. 27 della Costituzione. All’epoca i ferventi sostenitori dei diritti dei detenuti latitarono. Una latitanza assordante. Penosa come le motivazioni del diniego.
Difendere i diritti di Riina, il più grande criminale della storia italiana, ci fa sentire persone civili; difendere i diritti di un Cuffaro evidentemente ci fa arrossire.