Stupro di Rimini, la ricostruzione completa della vicenda

by Matilde Donnarumma
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La notte tra il 25 e il 26 agosto, sul Lungomare Guido Spadozzi, all’altezza dello stabilimento balneare 130 “Chiara” a Miramare di Rimini, una coppia di nazionalità polacca è stata aggredita da quattro uomini di cui tre minorenni.

La coppia, una donna ed un uomo entrambi di 26 anni, si è trovata circondata dai quattro, sono stati scaraventati sulla sabbia, il giovane è stato aggredito e più volte colpito alla testa con una violenza inaudita: botte, calci, quando ha cercato di difendersi è stato colpito più volte con una bottiglia di birra alla testa ed è finito tramortito accanto ad un moscone.

Ma, la ferocia degli aggressori non si è fermata, la ragazza viene trascinata sulla battigia del lido e, qui, viene violentata brutalmente a turno dai quattro aggressori.

L’incubo termina quando i quattro dopo averla stuprata la lanciano in mare lasciandola lì come se fosse un oggetto usato e poi gettato via.

A quel punto la ragazza si è trascinata a riva per soccorrere il suo amico e cercare di chiedere aiuto.

Ma la violenza dei quattro non si è fermata qui: dopo essersi allontanati dal luogo della violenza e si sono diretti fino alla Statale Adriatica dove hanno aggredito selvaggiamente una trans peruviana che è stata violentata a turno e ripetutamente dai quattro.

Per il pm Marzocchi sono stati «turpi, violenti e ripetuti atti di violenza di gruppo aggravato, oltre che lesioni e rapina».

La pubblicazione delle immagini delle telecamere di viodeosorveglianza che ritraevano i quattro durante i loro spostamenti e il riconoscimento da parte delle vittime ha dato una svolta positiva alle indagini.

Uno dei fotogrammi che riprendeva i giovani di spalle mentre camminavano sul lungomare di Rimini: due col cappellino con visiera, il terzo coperto dal cappuccio della felpa risale al 26 agosto alle 3.57 di notte.

Ormai i quattro avrebbero intuito che erano stati identificati o che sarebbero state poche le probabilità di farla franca.

Gli arresti dei quattro aggressori

Gli investigatori hanno chiuso il cerchio dopo il fermo dei due fratelli marocchini di 15 e 17 anni, che, sabato 2 settembre, consapevoli di essere stati ripresi dalle telecamere di video sorveglianza ed essendo conosciuti per i numerosi furti e rapine, hanno deciso, sotto consiglio del padre, di presentarsi spontaneamente alla caserma dei carabinieri di Montecchio di Vallefoglia, piccola frazione della provincia di Pesaro e Urbino.

Subito dopo c’è stato l’arresto del ragazzo nigeriano di 17 anni che non è stato convinto dagli amici a costituirsi.

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Più complicata è stata, invece, la cattura del quarto componente della banda, il congolese Guerli Burtungu di 20 anni.

Il padre 51enne dei due ragazzi, Mohamed, aveva riconosciuto le foto dei figli sul giornale ed allora li avrebbe costretti a costituirsi. Ma, avrebbe deciso di farli costituire solo in presenza del maresciallo, del paese di Vallefoglia, di loro conoscenza. Avrebbero anche chiamato prima per sincerarsi se ci fosse, altrimenti, “sarebbero ripassati”.

Guerlin Butungu, il congolese si 20 anni, è stato invece arrestato domenica 3 settembre, stava cercando di scappare all’estero, probabilmente in Francia.

Gli spostamenti del congolese sono stati seguiti dagli uomini delle Squadre mobili di Rimini e Pesaro e dello Sco grazie alle celle telefoniche.

Guerlin Butungu, aveva un coltello e alle 2 di notte era sfuggito alla cattura nel centro di Pesaro.

Gli uomini dello Sco e della Mobile di Rimini e Pesaro lo avevano intercettato in bicicletta all’altezza del parco Miralfiore ma sapevano che era armato, aveva un coltello, e per questo non volevano che sentisse la pressione degli inquirenti.

Lui si è accorto di essere circondato ma non si è arreso. Ha abbandonato la bicicletta e si è gettato all’interno del parco dove ha fatto perdere le tracce. Ma aveva il cellulare e seguendone le tracce, la polizia ha seguito i suoi spostamenti. Nella fuga ha perso anche i documenti e a quel punto il ventenne aveva una sola possibilità: quella di salire su un treno.

Non aveva alcun biglietto, ma è salito lo stesso sul treno delle 5.20, che da Pesaro punta in direzione nord. Si sentiva braccato dopo che, meno di 24 ore prima, i due complici, i fratelli di 15 e 17 anni nati in Italia da genitori marocchini, si erano costituiti mentre il terzo, il nigeriano di 16 anni, era stato rintracciato ed arrestato dalla polizia poco dopo.

Il fatto che il 20enne fosse armato di coltello, faceva temeva che potesse usare violenza per aprirsi un varco durante la cattura: per questo, gli agenti per intervenire hanno atteso che fosse solo, hanno spinto il fuggitivo verso la stazione dove è stato rintracciato sul treno ed arrestato. Secondo indiscrezioni, infatti, era solo a bordo del vagone e con sé aveva quattro bagagli.

Quando ha visto gli agenti, freddo e impassibile, ha provato a rigettare le accuse negando l’identità. Un tentativo malriuscito, visto che non aveva i documenti e portava con sé l’orologio Casio rubato al ragazzo polacco aggredito.

Dopo l’arresto, il 20enne che è stato interrogato fino a tarda sera, ha negato qualsiasi responsabilità e, subito dopo, è stato trasferito nel carcere di Rimini.

La posizione dei due fratelli marocchini

I due fratelli marocchini nati in Italia che hanno precedenti con la giustizia per furti, piccolo spaccio, atti di violenza spicciola e minacce, insieme al 16enne nigeriano, sono stati, invece, trasferiti nel carcere minorile del Pratello di Bologna. Intanto hanno negato di aver partecipato alle violenze sessuali, ma hanno ammesso le percosse.

A Vallefoglia, i due ragazzi erano temuti, perché, a quanto pare, avevano atteggiamenti prepotenti. Il sindaco Palmiro Ucchielli ha affermato: “Non c’erano segnali di delinquenza evidenti, almeno dal mio punto di vista. Questo prima di sapere dell’accaduto”.

Il procuratore per i minorenni di Bologna, Silvia Marzocchi, nel decreto di fermo nei confronti dei minorenni parla di “turpi, brutali e ripetuti atti di violenza“.

Intervistata dal “Corriere della Sera”, Francesca Capaldo, capo della sezione dello Sco che ha arrestato il ventenne a bordo del treno diretto verso Milano, ha riferito di essersi trovata davanti a ragazzi “mansueti” durante gli interrogatori: “invece il racconto delle due donne, le lesioni che hanno inferto loro, dimostrano che sono riusciti a tirare fuori una forza brutale“.

“Erano accaniti in maniera bestiale, non mi era mai capitato di vedere una cosa del genere tra estranei, – ha spiegato la poliziotta – può accadere nelle violenze in famiglia, quando c’è un rancore pregresso. Così è assurdo, non dimenticherò facilmente il terrore che ho letto sul volto della ragazza polacca”.

Gli interrogatori ai tre minorenni

Il più grande dei due fratelli magrebini durante gli interrogatori, assistito dall’avvocato Paolo Ghiselli, è stato il più loquace dei tre ma ha negato comunque la partecipazione attiva allo stupro.

Al pubblico ministero, il 17enne ha raccontato del potere che Butungu aveva su di loro: “era il più grande – ha affermato – ed era naturale che si fosse autoproclamato leader”.

L’avevano conosciuto mesi prima, e prima di quella notte avevano messo a segno qualche colpo: furti, ricettazioni di cellulari, tutti reati di cui i ragazzini si erano già macchiati in precedenza.

Sempre secondo il racconto del ragazzo, dopo essere arrivati a Riccione in treno, avevano passato gran parte della notte bazzicando bar e disco tra il Marano (la zona dei locali sulla spiaggia) e Miramare.

Avrebbero bevuto birra, vodka, e fumato spinelli a volontà, poi, avevano incrociato i due ragazzi polacchi.

L’idea di rapinarli sarebbe stata sempre di Butungu, ma loro non sapevano che sarebbe andato oltre.

“Ha dato un cazzotto al ragazzo, poi ci ha detto di tenerlo fermo mentre lui inseguiva la ragazza” – ed ha aggiunto – “io ho spinto la testa del ragazzo nella sabbia”.

A questo punto il racconto del ragazzo prende una direzione diversa da quella delle vittime perché, a differenza di quanto riferiscono loro, lui sostiene di non aver partecipato alla violenza, dice che a stuprare la giovane è stato solo Butungu, salvando così anche il fratellino di 15 anni dalle accuse di stupro.

Poi, ha raccontato che avevano proseguito dritti verso la Statale Adriatica e, qui, avevano incrociato la terza vittima, la transessuale peruviana.

Dopo averla rapinata, il congolese aveva ordinato: «Tenetela ferma», e così avevano fatto. 

Lui ha affermato di non aver partecipato allo stupro e in un rigurgito di ridicolo orgoglio ha aggiunto: “io non ho bisogno di andare a trans, forse qualcun altro l’ha violentata”, ma non ricordava chi, e continuando ha affermato: “ero confuso, ero troppo fatto, e non ricordo chi sia stato”.

Racconta che quando è finito tutto, ancora più storditi ed esaltati si erano incamminati a piedi verso la stazione di Riccione, da dove avevano ripreso il treno per tornare nelle Marche.

Meno loquace di lui, il fratello 15enne, il cui interrogatorio è durato decisamente poco. 

Qualche ammissione invece, il nigeriano l’avrebbe fatta, anche se è chiaro che tutti e tre punterebbero il dito verso Butungu.

L’interrogatorio di Guerli Butungu

Ieri pomeriggio poche ore dopo l’arresto, il pubblico ministero di Rimini ha voluto sentire subito anche Guerli Butungu. Il quale pare abbia mantenuto la sua freddezza, negando a oltranza di essere uno stupratore. Il 20enne ha ammesso di conoscere i tre minorenni, ma ha raccontato che quella del 25 agosto scorso è stata per loro una serata come tante. Hanno bevuto e ballato, si sono divertiti, poi sono tornati a casa.

Per quello che ne sa lui, non c’è stata nessuna violenza, lui non ha stuprato nessuno. Freddo fino alla fine. A quel punto il magistrato ha chiuso l’interrogatorio e ha disposto il trasferimento nel carcere dei Casetti, in isolamento dato che chi finisce in carcere con accuse di stupro rischia la ‘giustizia’ degli altri detenuti. 

Le affermazioni dei genitori dei due ragazzi e le loro affermazioni

I genitori dei ragazzi, intanto, cercano di attenuare il carico di responsabilità dei fratelli.

Mohamed, il padre dei due ragazzi che ora è agli arresti domiciliari e precedentemente era stato in carcere, cerca di prendere le difese dei figli incolpando Butungu dell’accaduto: “È colpa di quello più grande, il congolese. Lui li ha portati in questa situazione. Li ha fatti bere”, ha raccontato in un intervista a Repubblica. “Gli comprava i telefoni rubati. Hanno fatto il giro di molti locali, quella sera. Loro non hanno fatto niente. Non hanno violentato. Avranno rubato, ma niente altro.”

“Può succedere che uno rubi un cellulare, non che violenti una donna. Se succedesse a mia moglie, o a mia figlia, una cosa del genere, cercherei il responsabile e lo ammazzerei“, ha continuato Mohamed.

Mohamed è entrato in Italia negli anni ’90 – come riporta Il Giornale – e si insedia in Veneto. È irregolare, ma una sanatoria del 1995 gli dà la possibilità di regolarizzare la sua posizione, poi a causa di varie denunce, arresti e altri precedenti il permesso gli viene revocato, lui dovrebbe essere espulso ma, afferma, deve accudire i suoi figli.

Sia lui che la moglie sono immigrati clandestini ma i ragazzi sono nati in Italia.

La madre li descrive così: «Hanno lasciato da parte la scuola e i libri, per pensare solo a scarpe e vestiti, a bere e fumare. Ma non erano così. Il piccolo si dava da fare e giocava a rugby. Il grande ha fatto anche il giardiniere e giocava a calcio. Grazie ai tanti che ci hanno aiutato, al sindaco di Vallefoglia, alla Caritas, sembravano aver preso la strada giusta. E invece…»

“Sono arrabbiata, molto arrabbiata: con loro due, senz’altro, ma soprattutto col loro amico maggiorenne perché” afferma la mamma dei due ragazzi, in un’intervista al Corriere della Sera, “sono sicura che è stato lui a trascinarli”.

La madre dei ragazzi ha avuto cinque querele presentate dalla vicina di casa che, spaventatissima, è sempre stata perseguitata sia dalla donna che dai figli, inviati più volte dalla mamma a insultarla e a picchiarla.

L’ultima volta la vicina di casa ha avuto una prognosi di quindici giorni di guarigione per percosse.

Alla fine aveva ottenuto dal questore che la madre venisse ammonita per stalking.

La testimonianza della ragazza legnanese aggredita il 12 agosto

«Oggi sono quasi più felice del giorno in cui è nata mia figlia» afferma la trentenne legnanese di origine etiope aggredita lo scorso 12 agosto mentre usciva dalla discoteca insieme al compagno «Il gruppo che ci ha aggredito a Miramare, è lo stesso che hanno arrestato in queste ore. Adesso ho ancora paura, ma mi sono liberata da un incubo».

«Ho visto con piacere che è stato arrestato anche l’africano che  aveva tentato di abusare di me. È la stessa persona che impartiva gli ordini agli altri. Una persona senza umanità. Quando mi ha messa al muro gli ho mostrato la carta di identità di mia figlia, dicendo di non farmi del male perché avevo una bambina piccola. Lui me l’ha strappata di mano prendendo anche i soldi che c’erano dentro».

La trentaduenne di origine etiope è stata fondamentale nel riconoscere il gruppo e quindi per chiudere il cerchio alle indagini: «Avevo detto che si trattava di un gruppo di ragazzini, tutti molto giovani, forse nati in Italia visto che parlavano correttamente la lingua. L’unico dubbio è stato riconoscerli dai filmati visto che la nostra aggressione è avvenuta di notte e molto rapidamente. Allora, non c’era stato il tempo di osservare tutti in maniera approfondita. Adesso ne sono certa e ho chiamato i carabinieri per comunicarlo. Ho detto loro che sono sicura di averli riconosciuti e che sono davvero contenta che li abbiano presi».

Le amiche del gruppo dei quattro ragazzi in un intervista a Repubblica

Alcune amiche dei quattro ragazzi descrivono così i due fratelli: “Il più giovane, K., ci faceva paura perché si comportava come uno psicopatico. Parlava solo di uccidere e violentare. Lo ritenevamo anche noioso per questo motivo. Ma, non ci ha mai toccate e noi, comunque, facevamo attenzione: stavamo sempre insieme”.

Lo hanno raccontato tre ragazze minorenni a Repubblica, anche loro di origini marocchine e residenti a Montecchio di Vallefoglia. Una sera di fine agosto eravamo ad una festa di compleanno: K. disse una cosa che ci lasciò tutti senza parole. In quell’occasione K., avendo puntato la nostra amica Laura, affermò: “adesso la faccio bere e poi la violento”.

Qualcuno scoppiò a ridere, un altro lo rimproverò.

“Laura si spaventò e rimase con noi tutta la sera, appiccicata a noi”.

Dalla notte degli stupri i quattro ragazzi non si erano più fatti sentire né vedere. “Avevamo pensato che era strano e ci siamo dette: E se fossero loro?“.

L’immagine simbolo della rivendicazione delle donne

L’ immagine esemplare simbolo della rivendicazione di molte donne è stata quella di Guerli Butungu ammanettato dagli agenti della Questura di Rimini, stretto fra due poliziotte in borghese, è un’immagine emblematica, che ha chiuso il cerchio di questa vicenda di violenza e di stupri avvenuti a Rimini.

“L’arresto è stato una doppia soddisfazione perché a mettere le manette al quarto uomo sono state due donne, un gesto simbolico che ha reso giustizia alle vittime delle violenze», ha sottolineato ieri il questore di Rimini, Maurizio Improta.

Le stesse donne che hanno partecipato a un’imponente attività investigativa che ha mobilitato polizia e carabinieri negli ultimi 10 giorni, hanno commentato la vicenda con grande attenzione e sensibilità cercando di guardare sempre l’aspetto umano dei giovanissimi arrestati.

Francesca Capaldo, dirigente del Servizio operativo (Sco), colpita dall’apparente schizofrenia fra l’aria da ragazzini dei carnefici della coppia e della trans, e la loro ferocia, ha affermato: «E’ stata lampante ed evidente la discrasia fra il loro atteggiamento, il loro modo di fare, quasi da bambini, e l’efferatezza di questo reato gravissimo, raccontato dai volti e delle parole delle vittime. Abbiamo dato giustizia a una donna che ha sofferto moltissimo e alla trans peruviana».

Eventi che, in quanto donna prima e poi poliziotta, le hanno comunicato sofferenza e dolore indicibili che segneranno indelebili la propria esistenza.

Anche il pm della procura dei minori di Bologna, competente per l’inchiesta, è una donna, Silvia Marzocchi. L’unico suo commento ufficiale è sul comportamento dei quattro giovanissimi: «Turpi, brutali e ripetuti atti di violenza», come ha scritto nel decreto di fermo dei tre minorenni, i due fratelli marocchini di 15 e 17 anni e il 16enne nigeriano. Poi, alla richiesta di un commento sul ruolo delle inquirenti in questa vicenda, si è rifiutata di fare dichiarazioni “di genere”: «Non ho granché da dire al riguardo, sono un pm e faccio le indagini, non mi sembra importante che si sia donna o uomo, siamo persone che fanno il proprio lavoro».

Le ultime parole del questore di Rimini, Maurizio Improta, felice di aver assicurato alla giustizia i quattro autori delle violenze e degli stupri, sono state: “Ora bisognerà anche capire se quella notte da «arancia meccanica» sia stata o no la prima e l’unica che li ha visti protagonisti”.

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