La voce diviene racconto ed evoca visioni, l’elemento visivo fa da contrappeso a quello verbale, in un saldo equilibrio. Questo rappresenta l’arte del buon narratore e il luogo dove si palesano l’abilità e la pratica ultra trentennale di Marco Baliani, che torna sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli con due spettacoli in successione: Rigoletto, in scena da giovedì 19 alle ore 21.00 a domenica 22 gennaio, e Corpo di Stato, in scena da mercoledì 23 a mercoledì 25 gennaio sempre alle ore 10.30.
Gli spettacoli di Marco Baliani sono soliti tracciare storie, che hanno al centro il bisogno insaziabile, nell’uomo, di “un posto nel mondo dove sentirsi nel giusto, nel diritto”. La forza interiore, quella di sfidare il destino, la paura e la vita, diventano elementi fondamentali delle scelte personali e del percorso di ognuno.
Rigoletto è un monologo, quindi per farlo c’è bisogno di un personaggio in carne e ossa, spirito e materia. “È uno dei motivi – sottolinea Baliani – che mi ha spinto in quest’impresa. Poter rivestire per una volta la pelle di un altro e starci dentro dall’inizio alla fine, è una gioia particolare per me, che in scena da narratore non ho mai la possibilità di calarmi interamente nelle braghe di chicchessia.
La nostalgia per la donna amata, la gelosa premura nei confronti della figlia, la sete di vendetta contro chi minaccia la sua purezza: i sentimenti di Rigoletto, che la musica di Verdi ha reso immortali, rivivono nell’animo e nella storia di un clown che si esibisce in un piccolo teatro di periferia.
Davanti allo specchio, mentre trasforma col trucco il suo viso, si prepara per una serata speciale, quella in cui si consumerà la sua vendetta, sotto gli occhi di tutti. Pensieri, rancori, ricordi si susseguono in un monologo accompagnato, interrotto e, per certi versi, ostacolato da una musica sempre presente.
Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa rappresenta il rapporto conflittuale tra esigenza di rivolta contro l’ingiustizia e assunzione del ruolo di giustiziere. È sempre difficile raccontare qualcosa che è così vicino a noi, specie se quel qualcosa ha inciso profondamente sulle nostre esistenze e sulle nostre scelte.
Nei cinquantacinque giorni della prigionia di Moro, Baliani racconta di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine, divenuta spartiacque per scelte fino a quel momento rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche.