MEMORIA E OBLIO: PERCORSO DI RIFLESSIONE

by Eleonora Iasevoli
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aldo masullo

Se scorgiamo nella memoria la risposta al bisogno fondamentale dell’uomo in quanto uomo sociale, tanto più dobbiamo ammettere che essa è il risultato di un’opera collettiva, di una costruzione…”: Aldo Masullo, classe 1923, una vita dedicata alla filosofia, ma anche alla politica e al diritto. Insignito della cittadinanza onoraria di Napoli e della medaglia d’oro del Ministro per la Pubblica Istruzione, contribuì anche all’Annuale internazionale bilingue:”La Freccia e il Cerchio”, fondato e diretto da Edoardo Sant’Elia, promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

MEMORIA E OBLIO: PERCORSO DI RIFLESSIONE

di Eleonora Iasevoli

Una congerie di sensazioni e di immagini, anche prive di uno stretto nesso logico, si addensa nell’animo di chi osserva o richiama alla memoria la sagoma di un treno. E’ una sensazione ricorrente: ciò che desta attenzione non è – o non  è solo –  la massiccia conformazione, la possente struttura del pesante mezzo di trasporto. E’ piuttosto ciò che esso riesce ad evocare. A destare, nell’immaginario di ciascuno di noi. Al treno, alla sua figura composita e slanciata, in movimento o in una fredda condizione di immobilità, è legato l’impressione “dell’andare oltre”. Del procedere instancabile, ritmato, cadenzato. E’ il procedere verso una nuova stazione. Una nuova meta. E’ il protendersi verso nuovi luoghi, perché no! sconosciuti, che portano con sé una mistura di certezza ed imprevedibilità. Questo mezzo di trasporto rinnova in noi l’idea della conquista di uno spazio ignoto: il pensiero va per un attimo ai pionieri americani, all’opera monumentale compiuta per dotare di strade ferrate gli immensi spazi dei territori dell’Unione.

Il treno tuttavia porta con sé anche un altro significato allegorico. Un significato legato non più al movimento, alla dinamicità di “quell’andare oltre” che è “consustanziale” al concetto proprio di un mezzo di trasporto. È un significato che si àncora “al ciò che viene trasportato”. Al contenuto dei vagoni. Al quid che il treno porta con sé. All’insieme di merci, di persone. E con queste ultime di idee, opinioni. Modi di pensare. Modi di essere.

E allora si rompano gli indugi. È tempo di salire su un vagone e di attraversare l’itinerario proposto dal testo “La freccia e il cerchio”. Dalla sua lettura prendono corpo una infinita quantità di stimoli ideali, di inviti a riflettere. A pensare al di là dei limiti, dei nessi conseguenziali. Al di là delle certezze già “date”. Già fissate nel nostro immaginario, nel nostro essere pensanti. Nella nostra cultura. Ed ecco, ad esempio, che una riflessione sulla memoria, sul suo “essere”, si riveli un esercizio non semplice. Della memoria Romeo De Maio coglie insieme con Aldo Masullo “la sua inconsistente consistenza”, per dirla con un paradosso. Il dato di partenza é uno: la memoria è un cammino che essa stessa compie in un impeto continuo di “legare” eventi, immagini ed idee. In questo il flusso di ricordi, l’insieme delle tracce mnestiche, rappresentano un magmatico materiale destinato a sedimentarsi per richiamare nel presente ciò che é stato. Ciò che non é più. Si pensi alla mitologia. Al mito greco, in particolare. Il linguaggio mitologico si fonda sulla necessità di adeguare la trasmissione del sapere al bisogno di fissare nel tempo il contenuto da trasmettere. Il messaggio veicolato. Si tratta allora di recuperare forme e modalità espressive che rispondano a tale criterio. La metafora, diventa, di conseguenza lo strumento espressivo irrinunciabile. È grazie ad essa che l’impianto articolato della narrazione mitologica può consegnarsi alla memoria dei più senza temere il succedersi impietoso del tempo. La persistenza nell’immaginario collettivo di leggende e miti di diversa natura, nell’antichità come nel tempo presente, dunque, dipende proprio dalla funzione memorizzante che la narrazione fantastica è chiamata a svolgere. Il “suo essere” si sostanzia di questa finalità importante.

I miti, nel loro significato e nella loro funzione eziologica, diventano il luogo ideale attraverso cui la memoria di eventi di fatti, di significati si determina, si dispiega nella sua interezza in una dimensione metaforizzante.

Aldo Masullo si spinge su un diverso livello di riflessione. Egli parte da un assunto diverso. Vede nella memoria l’espressione di un bisogno, di un’urgenza. Di una necessità non proprio “individuale”, come dire, “intima”. Piuttosto collettiva. Condivisa. La dimensione comunitaria dell’uomo è basata sulla interazione di ciascuno di noi con altri, in un contesto, appunto, plurale, in cui le vicende personali si intersecano inevitabilmente con quelle altrui.  Aristotele ci ricorda la dimensione “politica” dell’essere umano come ontogenetica propensione di ogni singolo individuo. Ebbene in rapporto a ciò, in rapporto all’essere più proprio dell’uomo, la memoria si iscrive in un ambito non circoscritto alla coscienza del singolo, nel più profondo del suo solipsistico essere. Si afferma, piuttosto in un contesto collettivo. Sociale, in una parola. Ed in questo senso, allora, la memoria diventa il risultato di un’opera collettiva, di una costruzione, non artificiale, ma consapevole. Voluta. È come se nel ripiegarsi su di sé, un’intera collettività trovi un motivo per rispecchiarsi, per recuperare una continuità, nello svolgersi inesausto di eventi e di circostanze. Si può essere senza memoria? Ha senso “tirarsi fuori” dal vortice degli eventi, negando ad essi la possibilità di trovare un senso sul piano della linea del ricordo? Aldo Masullo cerca proprio questo: dimostrare l’impossibilità, per l’uomo moderno, di vivere in una dimensione in cui non c’è spazio per la memoria. Si vive perché, tra l’altro, si è memori di sé, del proprio vissuto collettivo. É questa la “legge” stessa della modernità. Eppure pensare all’uomo come ad un essere “padrone”, fiero artiere di un vissuto statico, quasi depositato, in tutta la sua compiutezza, in una sorta di coscienza collettiva, sempre recuperabile, è una presunzione quasi ridicola. Pensare all’uomo, al singolo uomo, come ad un “vate”, ad un tetragono “gestore” di una sorta di “magazzino” della mente, é come perdere di vista l’orizzonte di senso in cui si iscrive la presente riflessione sul ricordo e la memoria. Pensare in questi termini, significherebbe cadere in una sorta di visione antropocentrica della Vita, dell’Essere, senza invece intendere, in pieno, come la “lotta” perché il passato non passi, rappresenta un continuo conato che ci costringe a “fare i conti” con il limite. Con l’oblio. Giuseppe Gembillo occupa tutto un vagone nel nostro treno delle idee. Intesse un ragionamento che sa di provocazione. Perché non ha senso parlare di tracce mnestiche se non ci si capacita di un dato: la memoria non è un “luogo” costituito da dati uniformi e conseguenti. Esso è piuttosto un coacervo di elementi confliggenti. Contrastanti. In esso prendono corpo emozioni intensamente vissute, ma anche ricostruzioni razionali di eventi che ciascuno di noi seleziona in maniera più o meno consapevole. Non solo. Il ricordo risponde anche a dinamiche inconsapevoli. Non siamo padroni dei nostri pensieri. Perché essi affiorano nella nostra mente in una maniera a dir poco inconsulta. Le emozioni, sostiene Gembillo, si sovrappongono ai ricordi. Anzi, ne rappresentano, per così dire, il suo tessuto genetico, costitutivo. Razionalità e irrazionalità si fondono quando si discute di memoria. Colpisce una frase di Gembillo: “il memorizzare rappresenta sia una forma di saggezza individuale, sia una sorta di omaggio”. L’essere saggi, in questo caso, significa saper fare i conti con il passato e con il vissuto che ci “trascina verso noi stessi”, alla ricerca del proprio sé. E quando si è in grado di “fare i conti” con ciò che siamo o siamo stati in relazione al tutto in cui siamo stati chiamati a vivere, inevitabilmente “lambiamo” quello status di saggezza che nasce proprio dalla coscienza del nostro limite. Del nostro essere sospesi su un crinale  precario. Su una sorta di burrone. L’oblio da un lato. Dall’altro il possesso momentaneo di quello che è stato. Qui si “insinua” il tema dell’omaggio. Il ricordare, come il memorizzare, è una sorta di atto di omaggio che si rivolge a ciò che si ritiene degno di essere ricordato, dal momento che se ne riconosce l’importanza. E nel momento in cui, con il ricordo onoriamo ciò che é stato, riconducendolo alla “luce”, alla superficie della nostra mente, idealmente ne riconosciamo il diritto ad essere, a tornare a vivere. Ad allontanarsi da quel buco nero che è l’oblio. Heidegger forse più di Hegel e di tanti altri pensatori ebbe a sottolineare la condizione di precarietà del “dasein”: il suo essere inevitabilmente, ineluttabilmente “stretto” fino all’afasia e all’asfissia, tra il bisogno di trascendere se stesso e la necessita di fare i conti con il contesto concreto in cui ci è dato di vivere. In tutto ciò la memoria é forse l’unico strumento che ci spinge ad essere “fedeli” a noi stessi.

In un altro vagone del nostro treno incontriamo Rocco Ronchi. Ci fa sedere nel suo compartimento. E ci parla. Con moderazione, guardandoci negli occhi. Ci parla di oblio. E del rapporto tra sapere e dimenticanza. L’oblio non è l’apriori. Non è l’inizio, la condizione costitutiva di ogni dinamica di senso. Il fondamento, il primum è il ricordo. La dimenticanza è la dissoluzione delle singole tracce mnestiche. L’oblio è sempre la conseguenza di una decomposizione. Di un traviamento. Di una perdita. E si perde ciò che si ha. O ci si illude di possedere. Non c’è oblio senza ricerca di quanto è andato perduto. Come una ferita esso é già, fin dal suo primo insorgere, un processo di cicatrizzazione in corso. Una sorta di atto intenzionale, in cui ciò che si dimentica diventa un argine affinché non tutto ciò che è conservato nel ricordo si dissipi completamente e si perda per sempre. Ciò che è oggetto di oblio diventa esso stesso impedimento ad ulteriori “perdite”. Emerge qui quell’immagine della “larva” cara ad Ellenberger. La larva é la debole  traccia mnestica, è l’ombra di una presenza, di un contenuto memorizzato, che reso quasi inconoscibile, pare destinato a consunzione graduale. La nostra mente, accanto a contenuti chiari, evidenti, vitali, possiede anche presenze larvatiche che si vanno ad insinuare in quello spazio indistinto a cavaliere tra ciò che è oggetto di ricordo e ciò che lentamente procede verso l’oblio. La consapevolezza di queste “perdite”, dice Ruyer, porta la mente a reagire, ad attivarsi per “trattenere”, arrestare eventuali emorragie mnestiche.

È tempo ora di incontrare Aldo Trione. Ci accoglie in prima classe. Ci dice di accomodarci. Ha da dire. Ha da chiarire. In verità vuole che le sue provocazioni argomentative trovino luogo fertile per sviluppare fecondi ragionamenti. Parte dunque dalla lucida consapevolezza che il suo intervento sarà un antidiscorso sulla memoria. Perché quando si parla di facoltà rammemorante non si può pensare che questa riposi in una dimensione prettamente razionale. Lo si è visto anche in precedenza: la memoria è un non-luogo. Nel senso che essa non si costituisce, non si dipana lungo un processo di sviluppo razionale e conseguenziale. I suoi contenuti sono immagini. Sono tracce “visive”, inevitabilmente flebili ed inconsistenti. Non é un caso che nella mnemotecnica di Giordano Bruno, il ricordo si struttura in un rapporto continuo con le parole, che costituiscono le chiavi stesse per entrare nel mondo della mnemosune per dirla alla maniera dei Greci antichi. E la poesia, in questo senso, è la sede, il contenitore in cui si riversano le rimembranze. Da sempre. Da Omero fino ad oggi. Dice Trione:” l’invenzione poetica, attraversando la brulicante diffusività del mondo fenomenico, nel segno di continui movimenti metamorfosanti, tende a costruire universi che hanno proprie leggi in un compiuto sistema armonico”. Si tratta, quindi, di prendere atto che, nel mondo occidentale, a partire da Empedocle, in un certo senso, il cosmos, l’universo razionalmente concepito, é frutto di equilibrio tra forze opposte.Immaginazione e razionalità, seppure dialetticamente contrapposte, rappresentano il “collante”, l’unico approccio duale per intendere l’armonia del Tutto. La poesia, in questo senso, rappresenta lo strumento per “trattenere” il ricordo. Rappresenta un mezzo sofisticato, perché non impostato secondo le leggi della razionalità prosastica, con cui riprendere e trasmettere, alle generazioni future, quello che è stato. La sua singolarità sta nel fatto che si limita ad essere il luogo, questa volta definito, in cui tutto ciò che è inconsistente, in quanto puro pensiero, tende a tradursi in immagini, in descrizione compiuta. È questo il momento per incontrare una poetessa. Perchè è questo il momento per capire che relazione possa esserci tra rimembranza e afflato poetico. Jàne Wilkinson la incontriamo sul nostro treno. Ci viene incontro. Ci sorride. Vuole parlarci di una poetessa sudafricana Ingrid de Kok. Ed è come se quest’ultima fosse con noi. Nel  sorriso della de Kok si coglie una mestizia di fondo. Come se, nell’intimo della sua coscienza, nasconda un qualcosa di indicibile. Il treno sfreccia. E i sussulti delle carrozze obbligano a star seduti. Ci sediamo. Siamo tutto orecchi. Jane Wilkinson dice che la de Kok ha colto nel segno allorquando, parlando del proprio paese, il Sud – Africa, ha sostenuto che il passato di quella nazione, caratterizzato dalla dura persecuzione razziale, rappresenti oggi un peso intollerabile, una regione infernale, in un certo senso da avvolgere dal silenzio. Il ricordo del passato, di un passato amaro, doloroso, drammatico, diventa sempre più un motivo di imbarazzo, di disagio. Si vengono così, paradossalmente a incrociarsi due tendenze diverse: da un lato “l’esigenza di liberare dall’oblio le storie silenziate, permettendo a ciò che é stato rimosso di tornare, di riaffiorare, dando voce al mai udito e al mai guardato; dall’altro c’è chi dice che è necessario, quasi indispensabile, mettere un limite alla memoria con la sutura e la chiusura delle ferite dell’apartheid, per serrare la porta o concludere questo capitolo della storia sudafricana”. Diventa imbarazzante prendere atto che il bisogno di memoria può dare la stura a reazioni diverse e contrapposte. Del resto questo è il senso di una memoria che si apre al passato: accettare il rischio che ritorni ciò che non vuole, non può guarire. Rigurgiti di dolore e di sofferenza si sovrappongono alla necessità di aprirsi al futuro animati dalla speranza di un cambiamento. E dalla certezza che quello che é stato non deve ripetersi. Altri cantori della realtà sudafricana, sostiene la Wilkinson, si pongono nell’ottica di posizionarsi riflessivamente sul tema della ferita o meglio delle ferite di un popolo. In questa pluralità di voci, di espressioni, di intendimenti letterari, prendere corpo una sfida: ricordare il futuro. Riprodurre, nel solco e nel percorso che porta al domani, quelle giuste e adeguate funzioni di raccordo tra ciò che é stato e ciò che sarà. Tra ciò che appartiene ad un passato che non è più presente ed un futuro che ancora è da essere. In tutto questo fedeltà alla memoria e slancio verso il domani trovano il loro collante nell’insopprimibile esigenza di narrare, di “fare letteratura”, di scrivere. Per non dimenticare. Ma anche per non perdere la fede in un futuro migliore. Il Sud – Africa rappresenta l’abito geografico e tematico di riferimento anche dell’intervento di Laura Sarnelli. Il motivo della sua riflessione si condensa sul come sia possibile, sul piano della memoria, cicatrizzare una ferita. Un dolore comune. Vale la pena in questo senso, come premessa, ricordare un evento: nel 403 a. C.,” ad Atene, si insedia un governo democratico che garantisce l’immunità a tutti i complici del vecchio regime, la cosiddetta tirannia dei Trenta. Gli ateniesi prestano il giuramento di non rievocare i mali del passato ed erigono un altare a Lethe, l’Oblio. È così che la città riesce ad uscire da un impasse che, nel giro di un solo anno, stava portando alla dissoluzione del tessuto sociale”. Nicole Loraux, antropologa d’Oltralpe, coglie nel testo citato una contraddizione stridente: nell’Atene di fine quinto secolo, grazie al giuramento, si finisce per ricordare di non ricordare: l’oblio stesso diventa la condizione fondamentale per cui una comunità, uno stato possa continuare ad essere nel suo futuro prossimo. La Loraux insiste anche su un altro elemento di riflessione. Ella ritiene che la dimensione del politico sia legata ad un’ambivalenza della memoria: la decisione ateniese di imporre il giuramento di cui sopra, nasce proprio dalla convinzione, tutta politica, che solo imponendo ai cittadini di ricordare loro, l’impegno a non ricordare, è  possibile dar corpo ad una svolta, ad una praticabile opzione di vita collettiva, nel rispetto apparente della volontà generale. Ammantare di interesse pubblico una decisione che risponde a logiche  peculiari è, in un certo senso, una costante tipica del ruolo e del potere che il politico riserva a se stesso. In questo senso la dimenticanza diventa una caratteristica dell’agire politico. Tutto ciò che é stato, non necessariamente deve continuare ad essere. Che si disperda nel succedersi del tempo, delle circostanze, della realtà composita del presente è quasi una ineluttabile possibilità per un politico: egli non vuole che si risponda di scelte compiute in un passato non più riproponibile. Per lui vale solo l’hic et nunc. L’oblio, in questo senso, diventa la perdita definitiva di ciò che è stato. Esso presuppone l’impossibilità di portare alla luce ciò che il tempo ha definitivamente dissolto. La perdita malinconica è invece un tentativo di mantenere in vita un oggetto nonostante sia scomparso.  In tutti e tre i casi – dimenticanza, oblio e perdita malinconica – il discrimine, la cesura, tra memoria e la sua dissoluzione, consiste in una sorta di atteggiamento d’animo   che ciascun individuo può coscientemente assumere: quello di chi calcolando i risvolti che l’essere memore comporta, di conseguenza, agisce trattenendo o resettando le tracce mnestiche di un determinato evento. Le cicatrici di un dolore o di una passione rimangono comunque e sono in un certo senso l’unica vera presenza inamovibile di ciò che è stato.

In un’altra vettura del nostro treno incontriamo, questa volta, Janna Malamud Smith. Con lei si discute di privacy. È questo un termine che in genere consideriamo sinonimo di segretezza. In realtà è d’uopo distinguere tra ciò che intenzionalmente si intende nascondere e ciò che si vuole mantenere privato. Nel secondo caso non si può parlare di segretezza, ma solo di un sacrosanto tentativo di non veder violata quella dimensione più propria e personale di ciascuno di noi. Di cui dovremmo essere custodi gelosi. La privacy eleva la dignità, proteggendoci dall’annientamento o da una continua vergogna. La vergogna a sua volta dipende dalla comunità che tende a far sì che i membri di un gruppo si comportino secondo modalità da essi tollerate. In un mondo in cui i social networks irrompono nella vita di ciascuno di noi, di fatto, limitando la nostra sfera personale, c’è da chiedersi se questi stessi, alla fin fine, non finiscano per violarla costantemente:l’essere in contatto con una pluralità di soggetti e l’interagire con essi in ogni occasione della giornata, significa di fatto avere continuamente aperta sulla propria vita una finestra da cui è possibile essere oggetto di attenzione altrui. In questo mondo diafano e trasparente non c’è molto spazio per il rispetto della privacy.

Anna Maria Palombi Cataldi ci aspetta in un altro compartimento del treno. Ci vuole parlare della dimenticanza e della evocazione. Il suo esordio è di quelli che lasciano il segno: la memoria é un dovere: ci aiuta a ritrovare la nostra storia e le radici da cui veniamo; ma la storia viene continuamente riscritta, perché, come ha sostenuto Primo Levi, la memoria tende a organizzare i ricordi secondo criteri di utilità personale, di rimozione. Proprio Levi, rifacendosi alla terribile esperienza personale nei campi di sterminio, pose in essere un drammatico quesito: in assenza di testimonianze concrete, oggettive, verificabili, e soprattutto trasmissibili alle future generazioni, quello che è stato – la shoah, l’olocausto – poteva essere oggetto di negazione, di contestazione della sua concreta esistenza?. Certamente. Ecco perché sosteneva che bisognasse impegnarsi nell’opera di testimonianza, lasciando concretamente riferimenti quanto più precisi di ciò che era stato lo sterminio di sei milioni di Ebrei. L’impegno di Levi fu proprio questo. Elie Wiesel, sopravvissuto anche lui alla furia nazista, ricorda come gli stessi ebrei non credettero ad un sopravvissuto che si sforzava di farsi ascoltare, di metterli in guardia: lo ritennero un pazzo e rimasero nel loro villaggio, dove poi furono rastrellati dai nazisti. Quando la memoria porta con sé il carico dell’indicibile, dell’assurdo, nel singolo prevale il tentativo di non credere, di rinunciare a dar credito ai testimoni, alle prove oggettive. Imre Toth, ebreo ungherese, sfiorato dallo sterminio, riflettendo su quale potesse essere il ruolo di uno scrittore in relazione al dovere del ricordo e in rapporto alla shoah, ebbe a dire che la scrittura poteva rappresentare forse l’unico vero strumento per non dissipare le tracce di quell’insieme di disumane atrocità che l’olocausto rappresenta nella storia dell’uomo. Wiesel è stato ancora più diretto ed icastico. Scelse di raccontare la propria drammatica esperienza per non impazzire, per strappare quelle vittime del nazismo dall’oblio. Per aiutare i morti a sconfiggere la morte. La memoria di quello che è stato è forse l’unico vero baluardo contro il rischio che, in un futuro anche lontano, possa ripetersi drammaticamente quello che è già accaduto. Sul tema della dissoluzione ritorna anche Manuela Piscitelli, in una riflessione sulla memoria e l’urbanistica. In effetti i luoghi da noi abitati, le città, nel tempo hanno visto mutare radicalmente la loro conformazione strutturale e architettonica. La città contemporanea non ha, in un certo senso, più limiti: nel senso che non riesce più a distinguersi pienamente con il territorio circostante. Il nucleo urbano non esiste più, nella sua plasticità distintiva, precisa. Tutto appare indistinto e confuso. Non esiste più la città come spazio di vita collettiva dai tratti ben accentuati. Le città contemporanee stanno progressivamente perdendo la loro connotazione di spazi con precise “caratteristiche funzionali, per diventare flussi (di persone, di scambi, di relazioni) e sono completamente immerse nello sviluppo di una fitta rete di comunicazioni planetarie, che rendono inutili e superati i tradizionali spazi fisici di incontro destinati alle diverse attività”. La dilatazione dei centri urbani, dunque, va di pari passo ad una dissoluzione della propria funzione aggregante e di conservazione di una identità storica. La memoria del passato oggi sembra essersi dispersa nelle nostre città: le diversità dei tratti architettonici sono ormai  illeggibili. Tutto é uniforme e standardizzato. La memoria vive di tracce. Se queste scompaiono, scompare anche il ricordo di ciò che siamo stati. Alessandro Giappi in una sua lirica precisa: la memoria non insegna. La memoria è una lotta con il nulla. È l’estremo tentativo di sottrarre al niente che monta col succedere del tempo, ciò che è stato e ciò che siamo stati. Dice bene Francesco Scarabicchi nei suoi versi quando dinanzi al rischio che il passato si eclissi non trova soluzioni di sorta alla caducità del tutto: cade il giorno del nome, si cancella: essere quel che sono senza ieri, un me che adesso non sa più chi eri.

Per finire vorrei tornare al dialogo tra Masullo e De Maio. Voglio tornare in particolare alla riflessione che i due illustri filosofi operano sulle figure di Antigone e Creonte. Perché nello scontro tra la giovane donna che vuole assicurare al fratello una degna sepoltura, nel rispetto della legge del cuore e delle usanze avite, e Creonte che invece pretende l’inflessibile applicazione del divieto politico di dare onore funebre a un nemico dello stato, prende corpo l’eterna dialettica tra memoria e oblio. Le ragioni della donna sono incentrate sul bisogno di “trattenere” il ricordo vivo di chi non é più: e per questo é pronta ad immolarsi. Ad accettare lo scontro con il potere costituito. Tenere fede alle tradizioni, alle pratiche trasmesse da sempre significa far prevalere il rispetto di norme morali salde e fondanti la civiltà umana. Creonte ragione da uomo di potere. Da politico, diremmo oggi. Egli ha interesse che l’oblio scenda impietosamente sul fratello di Antigone, cancellandone pure il ricordo. In questa amara contrapposizione si coglie il senso stesso della Vita. Sebbene idealmente Antigone e Creonte escono sconfitti, perché entrambi non comprendono i limiti delle proprie posizioni, tuttavia il loro scontro è la riprova ancora attuale di come gli uomini continueranno a dividersi tra chi ha interesse a ricordare e chi invece per altrettante ragioni trova giovamento nell’oblio, come strumento, in molti casi, di affermazione dei propri interessi.

Ci sarà sempre chi avrà motivo di ricordare e chi di dimenticare.

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